Via libera ai “cibi capitalisti” in Corea del Nord. E da noi, che colore (politico) hanno i piatti?


Cantava Gaber: “Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra”. E ancora: “Io direi che il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra, se la cioccolata svizzera è di destra la Nutella è di sinistra”. Etichette lontane che tuttavia fanno sorridere, con il loro innegabile fondo di verità. Nell’Italia del XXI secolo che, nonostante la crisi economica, consente più o meno a tutte le tasche di arrivare al medesimo cibo, la connotazione politica del mangiare è percepita solo da palati, o meglio da menti, intellettualmente sofisticate. Ed è molto diversa dal passato, avendo anch’essa risentito della globalizzazione. A fare la differenza oggi, più che il prezzo dei prodotti, è la loro provenienza. Tra le campagne di boicottaggio contro le multinazionali che sfruttano il Terzomondo, assecondano i regimi oppressivi o violano i diritti dei lavoratori – solitamente promosse da realtà di sinistra – rientrano innumerevoli industrie alimentari: dalla Nestlé alla Chiquita, dalla Coca Cola a MacDonald. Chi bandisce dalla tavola i loro prodotti fa una scelta politica, una scelta di consumo critico.
Paradossalmente, poi, a differenza del passato, “mangiar di sinistra” costa più caro. Alcune sensibilità relative a modi e tempi di produzione del cibo rispettosi dell’ambiente – vedi Slow Food – o a canali di distribuzione e trasporto meno inquinanti – vedi il consumo a chilometro zero – solitamente sono ancora prerogativa del pensiero di sinistra e comportano oneri più elevati per il carrello della spesa. D’altro canto però nessuno si stupirebbe di vedere Bersani che addenta un McCheese, Vendola che si scola una Coca o meno che mai Renzi che organizza una braciolata di carni argentine (si potrebbe obiettare che questi signori sono ben lontani dal rappresentare un autentico spirito di Sinistra, ma questa è un’altra storia).
Le cose vanno diversamente dall’altra parte del mondo. Per rafforzare la sua immagine di monarca liberale, Kim Jong-un ha aperto le porte della Corea del Nord, ultimo “paradiso comunista”, alle prelibatezze del Capitalismo occidentale: pizza, hamburger e patatine. Fino a ieri cedere a queste tentazioni, vietate per legge, poteva significare la galera.  Il giovane leader, succeduto al padre Kim Jong-il, deve averne fatto incetta durante il suo lungo soggiorno in Europa per motivi di studio. E deve aver capito che il progresso passa anche dalla tavola. Diceva Brillat-Savarin che “il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono”. Certo, per un paese che da decenni soffre miseria, fame e isolamento, questa liberalizzazione gastronomica apparirà come una presa in giro, ma chissà che la strada per la rivoluzione non passi proprio da qui. E che non sia proprio il cheeseburger il primo spiraglio nella diga.
Silvia Gusmano

 

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