lo sapevi? Spunti per conversare

“Non di solo pane”

“Secondo un antico detto, “non di solo pane vive l’uomo”. È una grande verità. Ma la panificazione, nata circa quattromila anni fa, è l’emblema della nostra civiltà. Non solo il pane è il cibo più buono che io conosca – appena uscito dal forno e intinto nell’olio d’oliva, con un pizzico di sale e uno  di pepe, è ineguagliabile -, ma è stata la coltura dei cereali a spingere i nostri antenati nomadi a scegliere la vita sedentaria, da cui sono nate le prime comunità. Semina, mietitura, trebbiatura e molitura del grano non possono essere il frutto del lavoro di una persona soltanto, e così è anche per la panificazione, Il pane è sociale. Metaforicamente e no. Il pane è fatto per essere tagliato, offerto, diviso e condiviso. A tavola non si può non pensare agli altri comemnsali, a chi è accanto o di fronte a noi, e a passare loro il cestino del pane. Da Palermo a Milano, i panettieri modellano una forma di pane piccola e rotonda, la rosetta o michetta, simile alla rosa Tudor: corolla centrale e petali della stessa grandezza. Mia madre, sempre attenta, quando si accorgeva che sul mio piatto di verdura bollita era rimasto dell’olio e limone o del sughetto, staccava un petalo di pane e me lo porgeva discreta. In Sicilia si dice che la tavola priva di pane “piange”: non c’è convivio, né allegria”.

(La cucina del buon gusto, Simonetta Agnello Hornby e Maria Rosario Lazzati. Feltrinelli)

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Tradizione abruzzese: pane cotto e lumache

Il pane cotto e le lumache sono due piatti poveri della cucina contadina abruzzese. Entrambi fatti senza dover acquistare nulla. Il pane cotto era generalmente una pietanza invernale servita la sera, una minestra calda fatta per riciclare gli avanzi di pane secco, arricchita dalle proteine dell’uovo (anche quest’ultimo abbondava nei pollai dei contadini).  Le lumache erano invece una festa per i bambini. Solitamente dopo gli acquazzoni primaverili ed estivi, i contadini più anziani -rimasti a casa perché non più in grado di lavorare nei campi- portavano con sé i nipotini in campagna a raccogliere le lumache. Stivali ai piedi, buste in mano, nonni e nipoti facevano a gara a chi ne prendeva di più. Nella categoria dei prodotti selvatici, la lumaca è certamente uno degli alimenti più antichi della storia umana. Apprezzata dai Greci e dai Romani, la lumaca trova il suo massimo splendore in Francia, “le lumache alla bourguignonne”, infatti, sono uno dei piatti più classici della cucina francese. 
Ivana

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Favole e fave

Un menù dedicato alle fave, cibo povero, e, a mio avviso, molto gustoso. Le fave sono il frutto di una pianta coltivata già 3000 anni fa, lo testimoniano i rinvenimenti in tombe egizie, a dimostrazione che sono i primi legumi che l’uomo abbia mangiato.  Attraverso Greci e Romani sono giunte a noi, e si sono fatte spazio nelle tavole dei contadini, sopratutto i più poveri. Venivano chiamate la carne dei poveri perché pur costando nulla sono ricchissime di proteine, vitamine, fibre e potassio. Hanno conquistato così un ruolo da protagoniste in molti piatti del sud, come il macco di fave in Sicilia, fave e cicoria in Puglia, la vignarola nel Lazio e tanti altri gustosi piatti della cucina mediterranea.
A questo proposito mi piace ricordare una credenza piuttosto diffusa nelle campagne del centro e del sud del nostro Paese: chi apre un baccello di fava vi trova dentro sette fratelli avrà un lungo periodo di felicità.
e alla “fava porta fortuna” è dedicata questa fiaba di Italo Calvino 
Ivana

Padron di ceci e fave

C’era una volta a Palermo un certo Don Giovanni Misiranti, che a mezzogiorno si sognava il pranzo e alla sera la cena, e di notte se li sognava tutti e due. Un giorno, con la fame che gli allungava le budella, uscì fuori porta.  -O Sorte mia! – diceva fra sé, – così m’hai  abbandonata!- Camminando, vide per terra una fava. Si chinò a raccoglierla. Si sedette su un paracarro e cominciò a ragionare guardando la fava.  – Che bella fava! Ora la pianto in un vaso e verrà su una pianta di fave, , con tanti bei baccelli. I baccelli li farò seccare; poi pianterò le fave in un catino e ne avrò tanti baccelli… Di qui a tre anni,prendo in affitto un orto, pianto le fave e vedrete quante ne verranno. Al quarto anno affitto un magazzino e divento un grande negoziante… -.
Intanto aveva ripreso a camminare ed era arrivato fuori porta Sant’Antonino. C’era una fila di magazzini e davanti a un uscio sedeva una donna. –Buona donna, s’affittano questi magazzini?-
-Signorsì – gli rispose la donna – Chi è che li cerca?-
-Il mio padrone. – fa lui. –Con chi si deve trattare?-
– Con la signora che sta quassù-.
Don Giovanni Misiranti si mise a pensare, e andò a trovare un suo compare. –Per San Giovanni, – disse al compare, -non mi dovete dir di no. Prestatemi un vostro vestito per ventiquatt’ore.-
– Signorsì compare -. E Don giovanni Misiranti si vestì di tutto punto fino ai guanti e all’orologio. Poi andò da un barbiere a farsi radere , e tutto bello lustro, uscì da porta Sant’Antonino. Nel taschino del panciotto s’era messo la fava, e ogni tanto le dava una guardata di sottecchi. – Vide la donna sempre là seduta e le disse: – Buona donna, è a voi che un mio servitore ha chiesto dei magazzini da affittare? –
– Sissignore, è venuto per vederli? Venga con me che l’accompagno dalla moglie del mio padrone. Don Giovanni Misiranti, tutto impettito, segue la donna e si presenta alla padrona dei magazzini. La signora, vedendo un gentiluomo con tanto di cappello, guanti e catena d’oro, gli fece tanti complimenti e cominciarono a discorrere. Sul più bello entrò un bella signorina. Don Giovanni Misiranti aperse tanto d’occhi. – E’ una vostra parente? – chiese alla Signora.
-E’ mia figlia.
-Da sposare?
– Sì, ancora da sposare.
-Ne ho piacere: sono da sposare anch’io. Dopo un po’ fa: – A me pare che, concluso il contratto dei magazzini, dobbiamo passare a quello della figlia. Che ne dice la Signora?
E la Signora rispose: – Tutto può succedere…
Venne il marito. Don Giovanni s’alzò e fece un inchino. – Io sono padrone di terre – disse, – e vorrei affittare i vostri tredici magazzini per riempirli di fave, ceci e tutto il resto del raccolto. E, se non vi dispiace, vorrei anche vostra figlia in moglie.
-Ah. E come vi chiamate?
-Io mi chiamo Don Giovanni Misiranti, padron di ceci e fave, o tanti o quanti.-
-Allora Don Giovanni, datemi ventiquattr’ore di tempo e vi darò una risposta. Alla sera, la madre prese da parte la figlia e le disse che la voleva Don Giovanni Misiranti, padron di ceci e fave, o tanti o quanti. La figlia tutta contenta disse sì.
L’indomani Don Giovanni tornò dal suo compare e si fece prestare un altro vestito e, per prima cosa, passò la fave nel taschino del nuovo panciotto. Andò a casa dei padroni dei magazzini, e quando ebbe la risposta, toccò il cielo con un dito. – allora vorrei sbrigarmi – disse, – perché le mie molte occupazioni non permettono di perder tempo. – Signorsì Don Giovanni – dissero i genitori della ragazza, – vi andrebbe di stendere il contratto tra una settimana? – . Don Giovanni continuò tutti quei giorni a farsi prestare vestiti sempre diversi e i suoceri lo credevano molto ricco. Firmarono il contratto e la dote fu fissata in duemila onze di moneta d’oro in contanti, lenzuola e biancheria.
Quando si vide tanti denari davanti, Don Giovanni si sentì un altro uomo. Cominciò a spendere: regali per la sposa, e per sé vestiti e tutto quel che ci voleva per far bella figura.
Dopo otto giorni dal contratto, andò a nozze con un bel vestito da sposo, e la fava nel taschino del panciotto. Diedero feste e banchetti e Don Giovanni faceva una vita da barone. La suocera, a vedere questo scialo,  che non finiva più, cominciò a preoccuparsi: – Don Giovanni, quando la portate mia figlia a visitare i vostri feudi? E’ la stagione del raccolto.
Don Giovanni cominciò a confondersi, non sapeva più che scusa trovare. Si scervellava e tratto di tasca il suo portafortuna: – Sorte mia- diceva – qui mi devi aiutare ancora-
Fece preparare una bella lettiga per la sposa e la suocera e disse: – E’ tempo di partire. Andiamo verso Messina. Io vado aventi a cavallo, e voi mi venite dietro.
Don Giovanni partì a cavallo. Quando vide un luogo che gli sembrava facesse al caso suo, chiamò un contadino:- Tieni dodici tari: appena vedi venire una lettiga con due signore, se ti domandano di chi sono queste terre gli devi dire: – Di Don Giovanni Misiranti, padron di ceci e fave, o tanti o quanti. –
Passò la lettiga. – Buon uomo, di chi sono tutte queste belle terre? – Di Don Giovanni Misiranti, padron di ceci e fave, o tanti o quanti. –
La madre e la figlia sorrisero compiaciute e continuarono il viaggio. In un altro feudo successe lo stesso; Don Giovanni andava avanti battendo la strada al prezzo di dodici tari, con la fava nel taschino che era tutta la sua fortuna. Arrivato dove non c’era più nulla da vedere, Don Giovanni si disse:- Ora cerco una locanda e le aspetto. –Si guarda intorno e vede un gran palazzo, con una madamigella vestita di verde affacciata alla finestra.
-Pss, Pss!- fece la Madamigella e gli fece cenno di salire. Don Giovanni prese su per gli scaloni e aveva quasi paura di sporcarli tant’erano puliti e lucenti. Gli venne incontro la Madamigella e indicando con un gran gesto tutti i lampadari, i tappeti, le mura d’oro zecchino disse: -Ti piace il palazzo?
-Figuriamoci se non mi piace!- disse Don Giovanni. –Ci starei bene anche da morto qua dentro…
-Sali, Sali su, – e gli fece fare il giro dei quartieri: dappertutto c’erano gioielli, pietre preziose, drappi fini, roba che Don Giovanni non se l’era nemmeno mai sognata.
– La vedi tutta questa roba? E’ tutta tua. Sappitela guardare. Qua ci sono gli incartamenti. E’ un regalo che ti faccio. Io sono la fava che tu hai raccolto e conservato nel taschino. Adesso me ne vado. Don Giovanni stava per buttarlesi ai piedi e dirle tutta la sua gratitudine, ma la Madamigella vestita di verde non c’era più: era sparita sotto i suoi occhi. Invece il bel palazzo c’era sempre ed era suo, di lui Don Giovanni Misiranti.
Appena la suocera vide il palazzo:- Ah, figlia mia, che gran sorte ti è toccata. Don Giovanni, figlio caro, un così bel palazzo avevate e non ce l’avete mai detto!
– Eh!Volevo farvi una sorpresa…- E così le portò a visitare il palazzo ed era la prima volta che lo vedeva anche lui, e mostrò i gioielli, e gli incartamenti dei feudi, e un sotterraneo pieno d’oro e d’argento con la pala piantata in mezzo, poi le scuderie con tutte le carrozze, e infine passarono in rivista i lacchè e tutta la servitù.
Scrissero al suocero che vendesse tutto e venisse anche lui al palazzo, e Don Giovanni mandò una mancia anche a quella buona donna che aveva trovato seduta davanti ai magazzini.
Italo Calvino

 

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C’è vegetariano e vegetariano


Perché dico questo? Perché mi è capitato più di una volta che il vegetariano di turno condizionava tutti i presenti con la sua tolleranza-intolleranza verso i carnivori.
Gandhi, il vegetariano par excellence, precisamente vegano, diceva: “Bisogna che i vegetariani siano tolleranti se desiderano convertire gli altri al vegetarianismo. Adottate un po’ di umiltà”. Ecco, penso che anche a voi sia capitato che il vegetariano diventasse la star della serata. Se non è così siete stati davvero fortunati.
Sono vegetariana da tantissimi anni. Ero piccina e direi che non è stata una scelta religiosa. Neanche etica. Direi che ciò che mi ha allontanato dalla carne sia stato il suo odore forte. Ma per non rientrare anch’io nella categoria dei vegetariani di turno, salto l’approfondimento delle mie ragioni nell’abbracciare la fede vegetariana. Vi racconto un aneddoto che mi successe anni fa durante il corso di sommelier dell’AIS (Associazione Italiana Sommelier) all’Hotel Parco dei Principi di Roma. Durante l’ultima parte del corso, precisamente il terzo livello, quello che esaminava la metodologia dell’abbinamento cibo-vino, il relatore all’inizio del corso, camminando tra i banchi d’assaggio, chiese: “Alzi la mano chi di voi è vegetariano?”. Ero la sola. Allora i colleghi carnivori si spaccavano in due per farmi immaginare la succulenza, l’untuosità oppure la grassezza dei vari tipi di carne quando dovevo compilare la scheda dove si cerca di decidere il giusto abbinamento con il vino. I miei amici carnivori di banco erano assai umili.
Il termine vegetariano proviene dal latino vegetus, che significa sano. Ecco, anche questo a volte fa parte della confusione che ha  l’opinione collettiva nel far passare quel sano come vivere sano. Nella lunga lista dei vegetariani famosi troviamo, ad esempio,Tina Turner, Herman Hesse, John Lennon etc., ma direi che il loro vivere non è proprio un esempio di una vita immacolata. Fa piacere essere in compagnia del grande Enzo Maiorca, un vegetariano doc ed uno sportivo che con il suo corpo è entrato nella storia. Nella mia romantica immaginazione mi lascio incantare nel pensare che questo ammirevole siracusano è arrivato così lontano negli abissi, grazie anche al fatto che è vegetariano.
E mentre mia figlia piccola si gode il suo pollo che scrocchia, io serenamente mi mangio la mia patata. Ma non è bollente. Ecco perché sono convinta che c’è vegetariano e vegetariano. 
Sarah Zuhra Lukanic

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Pesce e formaggio: nozze antiche e felici

Il mio primo approccio con l’abbinamento pesce e formaggio risale agli inizi degli anni ’90 quando un esordiente Vissani a Unomattina impanò un’orata con del pecorino. Rimasi talmente sbalordita che il pomeriggio ero già in pescheria a comprare le orate: bisognava provare subito! Il risultato: una poesia.
Pesce e formaggio lontani e vicini, divisi dalla nascita come mare e terra, proprio come mare e terra, a volte, si compenetrano e si completano magnificamente.
Si dice che in cucina, come in amore tutto è permesso. C’è chi li adora separati e li snobba se sono insieme, considerando questo connubio una stranezza della “cucina moderna”. Nulla di più sbagliato. In Sicilia le nozze tra pesce e formaggio risalgono a oltre 2000 anni fa. Le prime tracce le troviamo nell’Edyphateia (330 avanti Cristo) di Archestrato da Gela, poeta e gastronomo esperto nei piatti di pesce, che ci ha lasciato in eredità le più antiche ricette siciliane.  Nel suo poema, Archestrato criticava l’abitudine siracusana di condire il pesce con troppo formaggio: “Costoro – scriveva – preparar non sanno i buoni pesci e guastan le vivande, ogni cosa di cacio essi imbrattando”. Anche lui, tuttavia, faceva qualche eccezione giacché era famoso per le sue code di rospo….rigorosamente ripiene di formaggio. Da allora le sperimentazioni tra pesce e formaggio si sono moltiplicate. Basta fare un giro su Internet per scoprire i tantissimi piatti che sposano salmoni, sogliole e calamari con parmigiano, pecorino, caciotte e ricotta. E come non citare gli chef più famosi del mondo? Proprio la cucina francese, nella sua buillabaise, spolvera con il formaggio grattugiato il denso brodo di pesce ottenuto da una lunga e lenta cottura.
Ivana

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“E’ una Norma!”

La Pasta alla norma è un piatto tipico della cucina siciliana, in particolare di quella catanese. Il suo nome trae origine, secondo la tradizione, da un elogio che il commediografo Nino Martoglio, nell’autunno del 1920, esternò durante un pranzo a casa dell’attore teatrale Janu Pandolfini. Si narra che assaggiata la famosa pasta con il pomodoro fresco, le melanzane fritte, il basilico e la ricotta salata, lo scrittore esclamasse soddisfatto: “E’ una Norma!”. Tale lusinga, indirizzata in quell’occasione alla creazione culinaria della signora Saridda Du’urso, cuoca e padrona di casa, non era nuova a Catania. Nei salotti bene della città, infatti, per esprimere sommo apprezzamento, si ricorreva già da tempo all’appellativo “Norma”, in onore naturalmente della celeberrima opera di Bellini. E oggi ci chiediamo cosa direbbe il grande compositore, catanese di nascita, dello strepitoso successo di questo strano caso di omonimia.
Alessandra

 

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I vini rosé

Il vino rosato è da sempre sottostimato.
Non so se perché è tenuto in scarsa considerazione dagli addetti ai lavori, di certo i consumatori lo amano poco perché erroneamente lo ritengono spesso una miscela malriuscita di vino rosso e vino bianco.
In Italia non ci sono notizie certe sulla nascita del vino rosato. Il primo (almeno il primo messo in commercio) viene alla luce nelle cantine di Leone De Castris nel 1943, in una contrada nel feudo di Salice Salentino chiamata “cinque rose”, da cui il nome del primo rosè.
Il vino rosato, si può ottenere con tecniche enologiche diverse, ognuna delle quali porta a risultati con qualità distinte, ma tutti hanno comunque una caratteristica comune: sono prodotti con uve a bacca rossa. Il colore si ottiene -come per i vini rossi- dalla macerazione delle bucce nel mosto per un determinato periodo, superiore per i vini rossi e più breve per i vini rosati. Le bucce rilasciano sostanze coloranti,  essenze aromatiche e i cosiddetti tannini che determineranno l’astringenza e la struttura del vino.
La produzione del vino rosato è  diffusa in molte zone vinicole d’Italia e del mondo: dalla prima produzione salentina, in Puglia, all’Abruzzo con il Cerasuolo di Montepulciano, sino, naturalmente, alla Provenza Francese, regina dei rosè.
Il vino rosato offre un’invidiabile versatilità, permette abbinamenti enogastronomici estremamente bilanciati e intriganti. Sa essere strutturato, aromatico -grazie ai tannini- come un vino rosso e piacevolmente leggero come un vino bianco.
Negli ultimi anni al vino rosato è stata dedicata maggiore attenzione proprio per la sua capacità di fondere la freschezza dei bianchi alla potenza dei rossi. Un mercato in crescita, che ha visto moltiplicare gli eventi dedicati alla promozione di questi vini. Sono  stata, tempo fa, alla manifestazione organizzata a Castel Gandolfo, “rose e rosati”,  un magnifico viaggio, nel borgo antico, tra colori e profumi, rose accostate a splendidi vini che ne richiamano colore, voluttà e freschezza.
I rosati migliori in Italia li troviamo in Abruzzo: Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo; in Puglia: Salento Rosato Five Roses, Salento Rosato Elfo, Salento Rosato Saturnino e Val di Neto Rosato; in Alto Adige: Lagrein Rosè; in Lombarida: Garda Classico Chiaretto; in Sardegna: Valle del Tirso Rosato Nieddera, Sibiola Rosè; in Calabria: Cirò Rosato.
Ivana

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La forma del latte

Morbida, fresca, dolce, cremosa, di color bianco lucente. Di cosa stiamo parlando? Della ricotta naturalmente, la forma del latte (parafrasando il titolo di un celebre romanzo di Andrea Camilleri), un cibo delizioso quanto semplice e naturale che ha il gusto dei pascoli e del latte appena munto e la sapienza antica di gesti tramandati da infinite generazioni. Un passato lontanissimo e tenacemente conservato da quella cultura materiale che è l’altra faccia della cultura alta (testimonianze letterarie e artistiche) e altrettanto indispensabile a ricostruire i modi e le ragioni dell’agire umano, cioè le faticose tappe del cammino dell’umanità.

La ricotta viene prodotta dal siero del latte che residua dalla lavorazione del formaggio ( è dunque un latticino non un formaggio!) attraverso una leggera acidificazione e cottura a circa 80 gradi (da qui il suo nome, ri-cotta cioè cotta due volte) e ha origini talmente antiche che si perdono nel mito. I Greci attribuivano infatti la sua scoperta ad Aristeo, figlio del dio Apollo e della bellissima ninfa Cirene, che dalle Muse apprese le arti dell’apicoltura, della coltivazione dell’ulivo e della lavorazione del latte. Nel corso dei secoli troviamo altre due rifondazioni del mito, una pagana e l’altra cristiana.

La più antica testimonianza letteraria della ricotta appartiene al IX canto dell’Odissea, dove Ulisse incontra Polifemo. Il celebre episodio è indissolubilmente legato all’astuzia di Ulisse, all’esaltazione delle sue capacità (Ulisse acceca il gigante e non gli rivela il suo vero nome, scampando così alla vendetta), ma se proviamo a invertire la prospettiva in questi versi giganteggia (è proprio il caso di dirlo!) la figura di Polifemo. Mostro orrendo e crudele, dotato di una straordinaria quanto distruttiva forza e per nulla somigliante, dice Omero, “alla stirpe che di pan si nutre”, Polifemo è il primo produttore di formaggi di cui resta memoria. Abitante solitario di una grotta vicina al mare, circondata da pini altissimi e ombrose querce, vive tra pecore e capre, conche e catini dove munge il latte, graticci dove conserva i formaggi. Qui Ulisse, senza ascoltare il suggerimento dei prudenti compagni, che lo esortavano a raggiungere in fretta le navi prima che il mostro rientrasse, si ferma a mangiare del “rappreso latte”, cioè della incantevole e golosa ricotta.

Più avanti, nel mondo latino, latticini e formaggi escono dalla letteratura per entrare nella trattatistica, con opere dedicate all’agricoltura, all’allevamento degli armenti e alla pastorizia, mentre un canestro di ricotta risplende su uno sfondo azzurrissimo nella pittura parietale del tempio di Iside a Pompei.

A lungo la ricotta, per le qualità nutrizionali e il basso costo, fu considerata un alimento povero. Basti pensare che ancora nei primi anni del secolo scorso i pastori della campagna romana – il Lazio è tra i grandi produttori di latticini e di formaggi – ricevevano come compenso una lira e cinquanta centesimi al giorno insieme a pane, polenta, ricotta e sale. Nella società antica e medievale sui latticini e più in generale sui formaggi, come osserva lo storico Massimo Montanari, pesava infatti il pregiudizio verso l’alimento latte, che era collegato all’idea d’infanzia e, per estensione, a quella della barbarie. Insomma i consumatori di latte erano considerati dei primitivi, eredi di quella società pastorale che consumava cibi forniti dalla natura, mentre gli evoluti erano i rappresentanti di una società agricola che utilizzava cibi inventati dall’uomo a partire dai prodotti naturali (ad es. il pane e il vino). Naturalmente la linea di demarcazione passava tra chi poteva spendere per nutrirsi e chi a stento aveva di che sopravvivere. Per i primi i derivati del latte erano tutt’al più un “ornamento delle tavole”, cioè uno dei tanti ingredienti di vivande elaborate, per gli altri una fonte primaria di nutrizione.

È durante il Medio Evo che si avviò il lento processo di nobilitazione dei derivati del latte, grazie alle istituzioni monastiche che continuarono a produrre latticini e formaggi. È in questo contesto che avviene la seconda rifondazione, questa volta cristiana. Protagonista non è più il mitico e ottuso gigante omerico, ma San Francesco che, giunto nel Lazio per organizzare una rappresentazione vivente della nascita di Gesù, avrebbe insegnato ai pastori l’arte di produrre la ricotta. La leggenda, ingentilita dalla presenza del santo della fraternità dell’umiltà e della povertà, fissa dunque nell’immaginario il ruolo che i monaci ebbero durante il Medio Evo: non solo depositari della cultura classica, di cui continuavano instancabilmente a trascrivere e quindi conservare le opere, ma anche delle tecniche della produzione casearia.

Col tempo e soprattutto grazie alla grande creatività della cucina italiana, che ha valorizzato alimenti considerati marginali e inventato accostamenti inediti e talvolta felicemente arditi, la ricotta ha conquistato un ruolo di vera protagonista in cucina e sulla tavola, perché duttile, versatile e generosa. La ricotta infatti può essere ricavata dal latte di vacca, di pecora, di capra, di bufala – con relative lievi variazioni nella consistenza e nel gusto – può essere fresca, stagionata, infornata, affumicata, speziata. La si può mangiare così com’è, magari con una spolverata di zucchero o, meglio ancora, accompagnata da un colata di miele. A proposito di questa ghiottoneria racconta Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte italiana con le sue cinquecentesche Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, un aneddoto riferito al grande Giotto. Ancora ragazzo, mentre badava al gregge, con una pietra appuntita disegnò una pecora su una “lastra piana e pulita”. Il caso volle che proprio allora passasse di lì Cimabue, pittore di grande fama, che si fermò ad ammirare quella figura incisa e subito, riconoscendone il genio, invitò il giovane pastore ad apprendere l’arte della pittura nella sua bottega. Leggendario incontro al quale qualcuno ha aggiunto un particolare ancora più leggendario: Giotto avrebbe offerto a quello sconosciuto di passaggio il suo pasto, della ricotta addolcita con il miele. Che sia vero o no questo fortuito incontro non conta molto e comunque ci piace credere a questa storia a lieto fine: l’intuito di Cimabue, il talento di un giovane pastore, il profilo realistico di una pecora e una ciotola di ricotta. Ingredienti questa volta non di una ricetta di cucina, ma di uno straordinario destino di artista.

Per la sua grande versatilità la ricotta si utilizza in cucina dagli antipasti ai dolci. La ricotta fresca si abbina infatti a tutti i colori e a tutti i sapori del mondo, perché non copre gli altri ingredienti, al contrario li esalta, li ammorbidisce, li lega. Discreta e generosa, ma sontuosa sempre, con il rosso del pomodoro dei cannelloni alla sorrentina, gli scrigni gialli dei ravioli, la morbidezza smeraldina degli spinaci o le sfumature malachite del cavolo nero dei toscanissimi gnudi (ravioli nudi, cioè senza il vestito di pasta), con il pallore della torta alle pere, l’oro e l’arancio dei canditi, il bruno del cioccolato, l’arcobaleno barocco della cassata siciliana. La ricotta stagionata cade invece come una nevicata di fiocchi saporosissimi sulla pasta alla Norma (un altro capolavoro, pari all’opera di Bellini che le ha dato il nome), sui fusilli alla bottarga di tonno dell’isola di Salina, sulle penne al pesto di pistacchi di Bronte.

Un’ultima curiosità prima di concludere. In molti paesi italiani si celebrano sagre legate a prodotti della gastronomia locale. Non sfugge a questo festoso omaggio popolare la ricotta e tra le sagre ad essa dedicate famosa è quella di Vizzini, il paese siciliano legato al nome e alla penna del grande Giovanni Verga. Inoltre in due località – Pietracatella, piccolo centro del Molise e Carlantino (Foggia) – si celebra una festa in onore della Madonna della ricotta. L’appellativo affettuoso attribuito a Maria, un modo di avvicinare il quotidiano all’eterno, è anche l’atto di devozione di chi doveva affrontare la transumanza, un viaggio che portava pastori e greggi verso il sud, dai pascoli estivi a quelli invernali, e che riservava incognite e pericoli.

Un esilio breve e con il ritorno certo, ma pur sempre un esilio. Così i pastori invocavano Maria a protezione e in segno di ringraziamento le offrivano la loro unica ricchezza, la ricotta.

Francesca Romana de’ Angelis

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La cucina da leggere

“Nella nostra città (Firenze) […] fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi (di modi bizzarri) […] Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole (piacevole), chiamato Maso del Saggio, il quale, udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose (decise) di voler prendere diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa (qualche sciocchezza). […] E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme incominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne gran lapidario (un grande esperto di pietre preziose). A’ quali ragionamenti Calandrino posta orecchie (prestata attenzione), e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza (che non si trattava di un colloquio riservato), si congiunse con loro (si unì a loro), il che forte (molto) piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole (proseguendo il suo discorso), fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone (luogo immaginario) terra de’ baschi (abitanti delle zone nord-occidentali della Spagna che avevano fama di un popolo dalle bizzarre abitudini) in una contrada che si chiamava Bengodi (altro luogo immaginario), nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta (per un denaro si poteva avere un’oca e, in aggiunta, un papero), e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni (gnocchi) e raviuoli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi (da qui, cioè dalla montagna di parmigiano), e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di Vernaccia, della miglior che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua.”

Inauguriamo con Boccaccio questo spazio – La cucina da leggere – dedicato al rapporto che da sempre lega cibo e letteratura. Tema della novella (Decameron, VIII, 3) è una beffa ordita ai danni di Calandrino, uno sciocco che si riteneva furbo, da parte di Maso del Saggio, uomo intelligente e incline alle burle, che vuole convincerlo dell’esistenza di una pietra magica che rende invisibili. La credulità di Calandrino non ha niente di ingenuo e di innocente (altrimenti non si tratterebbe di una burla, ma di un esercizio di crudeltà). Egli infatti converte subito in calcolo avido e meschino le informazioni ricevute: la pietra magica nella sua fantasia si trasforma in un’occasione di facile ricchezza. L’abilità verbale di Maso, che è alla base del suo gioco d’intelligenza, si esprime in una sorta di premessa rappresentata dal brano sopra riportato. Per rendere più credibile la sua invenzione delle pietre magiche, che è la sostanza della beffa, Maso fa balenare davanti agli occhi di Calandrino l’immagine di un paese dell’abbondanza e della ghiottoneria dove esistono montagne di formaggio, dove cuociono ravioli e gnocchi di cui ognuno può servirsi a piacimento e dove nei fiumi non scorre acqua ma vino. E’ Il paese di Bengodi, come lo chiama Boccaccio, detto anche nella tradizione letteraria il paese di Cuccagna. I due appellativi si sovrappongono nonostante le diverse etimologie ( composto di bene e godere il primo; da una voce germanica che indica dolciumi il secondo) e rappresentano il sogno di una società assediata dalla fame, dalla miseria, dalle carestie. Ma la letteratura non registra solo questa utopia gastronomica. Il cibo entra prepotentemente nella rappresentazione letteraria: dalle Sacre Scritture attraversa il mondo classico, la civiltà medievale, i fasti della società cortigiana per approdare, nel XIX secolo, alla cucina borghese. Attraverso le pagine degli scrittori potremo seguire il cibo come indicatore dell’identità socio-culturale, come spazio aperto allo scambio tra i popoli, come rappresentazione e descrizione di una realtà storica e geografica, come dimensione memoriale. Cibo dunque come documento, testimonianza ma anche come elemento di forte valenza metaforica. Quello che si mangia e come si mangia diventano così modi privilegiati per comprendere i valori di una società. Inseguiremo profumi, odori, ingredienti, curioseremo tra gli antichi ricettari, scopriremo i segreti dei grandi cuochi del passato e del presente, getteremo uno sguardo alle cucine domestiche, a quelle dei conventi medievali, ai monumentali banchetti cinquecenteschi, per arrivare alla qualità e alla rarefazione del cibo nei piatti della nouvelle cuisine e alla filosofia culinaria fusion. Dalla cornucopia di Poliziano ai capponi di Renzo, dall’uva moscatella di Pinocchio ai lupini di Verga, dalla madelaine di Proust al timballo di maccheroni del Gattopardo. Un viaggio goloso e ricco di tante sorprese!

Francesca Romana de’ Angelis

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